Non aveva mai pensato che di mille e una possibilità forse già mille erano sfumate e perdute – oppure che sarebbe stato costretto a perderle perché una sola era la sua
Ingeborg Bachmann, Il trentesimo anno
La luce sulla pagina mi riporta a Ottobre. La mattina d’autunno porta ancora con sé i residui dell’estate. Si parla ancora di pandemia, ma la nuova ondata ancora non è arrivata e io sono al centro vaccinale per un misto di senso di responsabilità e di preoccupazione di dimenticarmi la scadenza del green pass e avere problemi. Conosco la zona del Mandela Forum: all’inizio dei ventisette anni, di quella che una volta chiamavo la mia seconda adolescenza, all’inizio di quel periodo di esplorazione, nuove amicizie, nuovi amori vi abitava una persona che conoscevo e da cui mi recavo spesso. Lascio la macchina, poi l’attesa è breve. Quando entro nel cubicolo per la somministrazione del vaccino, l’uomo in camice bianco mi chiede che lavoro io faccia. Gli dico che sono un medico, si qualifica come collega, anestesista, in pensione. Mi chiede ulteriori specifiche – forse scambia una mia timidezza nei confronti della conversazione per preoccupazione e cerca di ridurla parlando. Gli dico che sto studiando per diventare psichiatra e attendo una delle due o tre consuete risposte che in generale ricevo da colleghi e conoscenti, “Qui ci sarebbero un sacco di clienti per te” oppure “Dovremmo venire tutti da te”. Mi fa sempre sorridere chiedermi se poi quelli che mi fanno questa osservazione effettivamente poi sentano che loro o gli altri avrebbero bisogno di supporto o se è solo un intercalare, magari dettato da una lite con un collega o dalla mancata comprensione di un comportamento (e quello che non si comprende, lo diceva Watzlawick, viene sempre etichettato come folle e dunque meritevole di approfondimento psichiatrico). Il collega però dice tutt’altro. Sai, dice, la psichiatria avrebbe interessato anche me. Però, vedi, quando uno è giovane ha tutte le potenzialità, poi inizia a scegliere e le strade possibili sono sempre meno, fino a che non ne resta solo una. Vedi, io ho scelto il liceo classico e già qualche strada non c’era più, poi Medicina e quindi non sarei mai potuto essere un ingegnere. Infine ho fatto l’anestesista e quindi tutti i sogni sui possibili futuri alternativi sono rimasti tali, solo sogni. Detto questo mi vaccina, poi mi saluta. Non so cosa dirgli, non so che peso egli dia a ciò che mi ha detto. Lo saluto con l’impressione che dovrei rispondergli molto e che non lo farò, nell’uscire incespico sulla sedia e quindi poi passo il resto della mattinata a chiedermi se la mia uscita di scena sia risultata un po’ goffa.
Dovrei rispondergli molto, in effetti. Dovrei rispondergli che sì, forse ha ragione. A diciannove anni avrei voluto iscrivermi a Lettere, volevo fare il professore nei licei, avrei spiegato Montale e la metrica. Sapevo tutto sulla versificazione in italiano, le cesure dell’endecasillabo, avevo letto Ossi di seppia e tutto sembrava riconducibile a poche direttrici semplici che potevano essere colte con la letteratura. Mi iscrissi come lui a Medicina, passai dall’analisi dei racconti degli altri alla raccolta di storie e di volti che avrei dovuto poi io conservare e raccontare. Avrei dovuto dirgli di quei giorni di luglio in cui, in modo impulsivo, animato forse dai vecchi fantasmi del liceo, scelsi di fare lo psichiatra e non sapevo bene cosa attendermi – altre scelte, altre strade prese che ne lasciavano altre abbandonate. Avrei dovuto dirgli quindi che aveva ragione, che i giorni ci scolpiscono in una figura non più modificabile, ci “appuntano a uno spillo”, come scrive Eliot. E quindi le scelte fatte non sono revocabili e guardandosi indietro si sente l’odore e il rimpianto delle strade non seguite.
La lampada del bagno, in questo inizio di primavera, illumina le pagine di un racconto della Bachmann, Il trentesimo anno. Fa parte di una raccolta che ho comprato l’anno scorso e non sono mai riuscito a leggere. Questo racconto l’avrò iniziato tre volte e ora ci sono tornato. Penso che la Bachmann piacerebbe al mio anonimo anestesista. Scrive, all’inizio del racconto, quello che lui sosteneva, cioè che la vita non è che una progressiva perdita di possibilità, un progressivo cedere della potenza all’atto, un progressivo definirsi cui si affianca l’accumularsi delle strade non seguite e delle occasioni non colte. Ripenso quindi al ragazzo che alla maturità citava a memoria Foscolo e Montale e mi chiedo se effettivamente avesse qualche possibilità che io ho ora irrimediabilmente perduto. In realtà, mi viene in mente, gli ultimi dieci anni della mia vita non sono stati che un nostos omerico per tornare esattamente al punto di partenza, al bambino che chiedeva al padre: “Perché io mi sento esattamente io e non mi sento un altro?”, al diciassettenne che si interrogava su Dostoevskij e si innamorava delle compagne di orchestra, al diciottenne che voleva scrivere romanzi e si rendeva conto di sapere troppo poco del mondo per poterne parlare e troppo poco soprattutto di come si raccontano gli uomini. E dunque le strade storte, le deviazioni, gli impulsi, sembra che mi abbiano condotto in un luogo compatibile con i miei anni di viaggi mentali e di sogni, perché non credo che al ragazzo di allora sarebbe sembrato strano diventare un adulto che legge Bauman al mattino appena sveglio e si riconosce in quelle pagine di Deleuze che dicono che la psicoanalisi (come in fondo tutta la psicoterapia troppo rigida sul proprio modello) limita e non comprende il desiderio dell’uomo, lo fraintende cercando di renderlo conforme ai propri schemi anziché tentare di ascoltarlo in modo partecipe. E dunque forse all’anestesista, oggi, vorrei dire che in fondo le possibilità che abbiamo sono sempre limitate, perché siamo destinati ad essere coerenti con noi stessi. Siamo destinati a cercare in ogni cammino che compiamo qualcosa che sia pienamente nostro, che sia aderente a quello che siamo e che siamo stati – e quindi, dopo essermi interrogato per anni sul modo in cui diamo una forma narrativa alla nostra esperienza, adesso mi trovo ad ascoltare un sabato al mese persone che mi parlano esattamente di questo e lo scaffale è pieno di libri che si interrogano su come costruiamo la nostra identità, la nostra storia di noi stessi, e su come la società influenzi questo. Mentre appoggio il libro e spengo la luce, guardo la strada percorsa e vi riconosco un filo, una continuità, una sottile colorazione dell’asfalto che parla di me e di me soltanto. Qualcosa, in qualche modo, in tutto quello che è successo, sono io.