Nord di Lanzarote, 10 gennaio 2023

Non conoscevo César Manrique. Il suo nome, letto per la prima volta sulla facciata dell’aeroporto di Arrecife, mi porta a chiedermi se si tratti di un eroe locale, come il Daskaloghiannis a cui è intitolato l’aerodromio di Chanià. La guida che ho comprato prima del viaggio mi informa che trattasi di un artista che ha molto lottato per preservare il territorio di Lanzarote dalla speculazione edilizia negli anni della scoperta turistica delle Canarie e mi illudo che il mio incontro con lui si concluderà lì. Ancora non so che mi troverò a inseguirne le tracce sulle strade polverose che costeggiano l’oceano, tra i paesini bianchi che salgono verso le montagne, nel nero del basalto. Quando lo ritrovo, due giorni più tardi, in una visita mattutina al Jardín de Cactus, è come se improvvisamente riuscissi a comprendere quello che avevo letto sui suoi tentativi di realizzare un’architettura che si armonizzasse con la natura e con le caratteristiche di Lanzarote. In quel giardino, sembra esserci tutta l’isola, con il bianco dell’intonaco del mulino che, in alto, guarda verso l’oceano, con il nero della pietra vulcanica che circonda l’opera, nei cactus che, pur provenendo da varie parti del mondo, ricordano quelli che si possono vedere in vari angoli dell’isola, a certe svolte di strada. La natura e le tradizioni costruttive di Lanzarote entrano nell’architettura del luogo senza sforzo, si fondono e alla fine sembra impossibile distinguere cosa, di ciò che vedo, dipenda dall’accurato lavoro di progettazione di Manrique e cosa invece dallo spontaneo crescere delle piante, dal loro strutturarsi in forme particolari e suggestive, dalla loro autonomia anarchica che dipende dalla ricerca del sole, dalla disponibilità di nutrienti nella terra rossa e da chissà cos’altro. Il confine tra l’umano e il naturale non è nettamente segnato, a differenza di altre opere costruite in dialogo con l’ambiente circostante come la casa sulla cascata di Wright; qui chi osserva a tratti si dimentica della mano dell’architetto che ha consentito di ammirare tutto questo e rimane a guardare l’intrecciarsi delle sagome dei cactus, a ricercarne i fiori, a contemplarne la grandezza.
Rimango folgorato – sarà che quest’anno, occupandomi di emozioni ambientali, ho affrontato molto spesso la sparizione della natura dalle città contemporanee e la necessità di trovare un equilibrio tra uomo e natura, sarà che ieri, con la mia compagna di viaggio, davanti alla playa de Papagayo, parlavamo della pace che dà immergersi nei paesaggi non antropizzati, nella serenità che emerge dal tornare entro un panorama di terra, roccia, alberi e vento, abbandonando gli sbarramenti anonimi di cemento che popolano la quotidianità cittadina. Decido dunque, seguendo la strada del nord che attraversa Arrieta, di cercare altre tracce del passaggio di Manrique sull’isola, di osservare altri tentativi di mescolare la natura alla presenza umana senza farle scontrare, senza far prevalere l’uomo sui luoghi che lo accolgono.

La strada del nord, dopo una sosta ad Arrieta, mi conduce ai Jameos del Agua. Qui, tutto sembra costruito per valorizzare un altro elemento locale, quelle grotte vulcaniche che poco dopo, poco distante da qui, vedrò alla Cueva de los Verdes. Entrando, la luce piano piano si attenua mentre le piante presenti sui terrazzamenti scavati nel costone di roccia scosceso che bisogna percorrere per accedere alla grotta ricordano certi templi e piramidi asiatici o americani ricoperti dalla vegetazione, da me visti soltanto nei film d’azione o di avventura. Per un attimo mi sembra di essere in una pellicola di Indiana Jones, poi, avvicinandomi allo specchio d’acqua contenuto nella cavità vulcanica celata in fondo alla discesa, trovo più interessante approfondire l’esistenza dei piccoli granchi bianchi che, da quello che leggo, sono tipici di questo luogo. Sono albini e ciechi, scrive la guida; le loro dimensioni sono così ridotte che sulle prime li scambio per semplici macchie bianche sulle rocce immerse nell’acqua e solo ad un’analisi più approfondita mi accorgo dei loro movimenti. Uscendo dalla grotta, si apre davanti agli occhi un luogo che sembra voler riassumere, dopo lo spazio dato alla natura, quello che l’uomo ha costruito a Lanzarote e dunque l’intonaco bianco predomina, le scale che salgono conducono a case sormontate da tetti piani o da ampie terrazze come quelle visibili in varie parti dell’isola, mentre quelle che scendono portano a un bar bianchissimo con le sedute in pietra lavica e a un auditorium che sprofonda nella roccia basaltica. Anche nel luogo che maggiormente sembra rappresentare la tradizione costruttiva del luogo, comunque, gli elementi naturali non vengono dimenticati e la palma e lo specchio d’acqua al centro dell’ampio spiazzo da cui si dipartono le scale sembrano richiamare quanto visto entrando nella grotta e attraversandola: il lago naturale, i terrazzamenti pieni di piante. Tutto ha il calore di un villaggio oceanico nel tardo pomeriggio, il bianco fornisce al luogo una solarità che raramente ho trovato altrove.

Rientrando verso casa, a sera, mi fermo alla Fondazione César Manrique, che poi è la casa, nei pressi di Arrecife, in cui l’artista visse per molti anni e che ora contiene alcuni suoi quadri e opere, oltre a varie foto e documenti sulla sua vita. Fuori, una scultura si muove seguendo il forte vento dell’isola; Manrique ne ha costruite varie, collocate in molte zone di Lanzarote, la loro configurazione e il modo in cui appaiono al viaggiatore vengono modellati dall’intensità e dalla direzione del vento e dunque, ancora, come al Jardín de Cactus, l’artista lascia la natura libera di apportare dei cambiamenti alla propria opera seguendo le proprie imprevedibili regole. I documenti e le foto presenti nella Fondazione mostrano un luogo per certi versi simile a una comune, in cui le persone si fermavano per tempi più o meno lunghi e in cui ci si sforzava di evidenziare una differenza rispetto allo scorrere dell’esistenza al di fuori di quelle mura protette dalla notorietà dell’artista. Ascoltando le interviste proiettate alle pareti, in cui chi frequentava questo luogo ne sottolineava la libertà, associata al rischio di potersi trovare da un momento all’altro vestiti con un indumento stravagante creato da Manrique, e guardando le date sulle pagine dei giornali appesi alle pareti, mi viene da pensare che in fondo tale bisogno di anarchia privata fosse necessario, in un periodo in cui il grigiore oppressivo degli ultimi anni di Franco trascolorava in una transizione dove la democrazia era ancora un’istituzione fragile, come evidenziò nel 1981 il tentativo di golpe di Tejero. Eppure, questa dimensione di libertà individuale non era priva di contatti con l’esterno, a differenza di quanto sarebbe avvenuto poi per molti negli anni Ottanta, in cui all’edonismo corrispose un sostanziale disinteresse per le questioni politiche e relative alla comunità; infatti, quello che si può osservare nelle stanze della fondazione è una applicazione del motto surrealista coniato da Breton trasformare il mondo, cambiare la vita, ossia unire alla ricerca della liberazione dei desideri individuali la lotta collettiva per la trasformazione dell’esistente. E di quest’ultimo aspetto si trova traccia ovunque, qui, dove ogni segmento del percorso espositivo ricorda l’impegno di Manrique in favore di una conservazione delle specificità dell’isola: ci sono interviste contro la speculazione edilizia a Lanzarote, ci sono appelli per preservare la natura e le caratteristiche del luogo, ci sono le modalità costruttive stesse di questa casa, le finestre sotto le quali sono presenti le stesse rocce che possono essere osservate all’esterno, le stanze realizzate intorno a piante che si innalzano fino a fuoriuscire da aperture sul soffitto, il bianco dell’intonaco esterno e il nero del basalto all’interno, come a voler ribadire a un mondo ormai lanciato verso la cementificazione anonima una strada per un’architettura immersa nella natura e nelle tradizioni locali. Il senso di serenità che si respira nelle strutture che Manrique ha realizzato, la meraviglia che ne emerge, sicuramente lasciano delle tracce emotive, che fanno comprendere ancor più delle valutazioni razionali il valore e il significato delle sue posizioni. Ed è forse per questo, per questi momenti di immersione in questi luoghi sospesi tra la mano dell’uomo e le stratificazioni del terreno e delle piante di Lanzarote, che so, tornando in albergo, che porterò con me a lungo il ricordo di questo piccolo tentativo di rivolta perso al largo dell’oceano.


