Elogio dell’incomprensione – note sparse su un frammento di Anouilh

Comprendere… Voi non avete che questa parola in bocca, tutti, da quando ero piccola. Bisognava comprendere che non si può giocare con l’acqua, l’acqua bella che fugge, fredda, perché così si bagna il pavimento e con la terra, perché così ci si sporcano i vestiti. Bisognava comprendere che non si deve mangiare tutto in una volta, dare tutto quello che si ha in tasca al mendicante che incontri, correre, correre nel vento fino a che non si cade a terra e bere quando sei accaldato e fare il bagno quando è troppo presto o troppo tardi, ma non quando se ne ha semplicemente voglia! Comprendere. Sempre comprendere.

(J.Anouilh, Antigone)

Mi sono sempre ritrovato in questo passaggio dell’Antigone di Anouilh, in questa percezione del dovere che permea tutto e che progressivamente toglie la gioia delle piccole follie quotidiane, degli amori strappati alla noia di un sabato pomeriggio, dell’inseguimento dell’acqua in una sera d’estate. Ho sempre lottato contro i miei “non si fa” interiorizzati, contro le buone ragioni per negarsi il piacere e per aderire a degli standard esterni che escludono ciò che desidero. A diciott’anni salivo sui treni fermi alla stazione immaginando di prenderli, in seguito ho amato perdermi nelle strade di Firenze, in centro, nei pomeriggi di luglio, semplicemente per vedere dove sarei potuto arrivare e l’apparire del Forte di Belvedere in cima alla collina aveva il sapore della libertà.

Ho camminato a lungo con l’ombra delle mie comprensioni, con l’ombra di ciò che era giusto fare che relegava la vita alla pagina di un libro scritta o letta, eliminando l’atto e relegandolo nella fantasia. Ho navigato con il fantasma di Prufrock, che sussurrava “avrò il coraggio di turbare l’universo?”. E infine forse ho scoperto che era bello lasciarsi pervadere dal primo sole della primavera in piazza Pitti, seduto su un gradino, raccontando la mia storia ad altri occhi; ascoltando altre parole mi sentivo infine vicino, infine compreso all’interno di tutto quello che avevo per lungo tempo osservato dietro un vetro e la mia vita era infine un film in cui comparivo, anziché essere un semplice spettatore in sala. Infine forse ho scoperto che era bella la notte, quando andava avanti fino a tardi e le canzoni di De André risuonavano nella grande sala e io ero lì, solo lì, senza passato né futuro, immerso in quella cristallizzazione perfetta del presente, che si infilava tra le percezioni e i pensieri eternando i secondi di quei silenzi di giugno. Il vetro era frantumato e potevo toccare la materia del mondo senza sentirla fragile come i fantasmi della Tempesta di Shakespeare.

Non ho forse ancora imparato a non comprendere, però ho imparato a lasciarmi più spazio, ad abbracciare quei secondi in cui l’esistenza collassa su se stessa e il senso di tutto appare immerso nella bellezza dell’attimo. Queste parole di Antigone risuonano ancora, nella primavera piovosa, ancora evocano i fantasmi di ieri e fanno sognare i giorni che verranno in cui di nuovo riuscirò a non comprendere e ad afferrare un brandello di universo senza pensare troppo se sia giusto o sbagliato.

Tutti i nomi belli sono tristi

Uscendo da teatro, discutiamo di come ci raccontiamo, di come rappresentiamo le nostre vite giorno dopo giorno. Siamo stati a vedere un monologo basato su tre drammi di Jon Fosse e siamo stati pervasi dalle storie mancate di quei testi, dalle esistenze che si sarebbero potute vivere e che invece non sono state perché i personaggi hanno aderito a una qualche forma di dover essere rinunciando a se stessi e ai propri desideri. Siamo stati pervasi da quel senso di infinita e inutile continuità dell’esistenza espresso da una delle protagoniste – la città, dice, è piena di vivi che tra cinquant’anni saranno morti e cinquant’anni fa era piena di vivi che ora sono morti. La vita si mantiene senza preoccuparsi se, in questa eterna sostituzione dei volti delusi di oggi con altri volti pronti alla delusione che oggi sono ancora bambini e dicono che “tutti i nomi belli sono tristi”, la donna seduta sulla panchina abbia realizzato il suo desiderio di fuggire con l’uomo incontrato prima del funerale oppure sia rimasta lì a fantasticare, a coltivare il suo non-essere, il suo essere altrove rispetto al senso di sé che immaginava.

Uscendo da teatro, parliamo delle storie che raccontiamo a noi stessi per darci senso e di come talora quelle storie non ci piacciano eppure rimaniamo al loro interno, forse per noia, forse perché è troppo difficile attraversare il buio per iniziare un nuovo racconto. E così a volte ci facciamo trascinare dalle onde, fermati dagli infiniti non si deve e non si può di cui parla anche l’Antigone di Anouilh in cui mi rivedevo così tanto negli anni del liceo, e alla fine nessuno ci riconosce più, come il marinaio di Fosse che non viene riconosciuto dai genitori.

O forse talora proviamo a cambiare, a saltare nell’oscurità, a dirci diversi e abbiamo paura di finire come la donna del dramma di Fosse che ignora gli avvertimenti della madre e finisce annegata dall’uomo che amava.

In tutti i casi, rimaniamo con le nostre storie di noi stessi, con i particolari che raccogliamo dalla realtà per giustificarci e per dare validità al senso del nostro esistere che ci siamo creati. Forse sono storie intimamente insoddisfacenti, forse non abbiamo la forza di cambiarle, forse non sappiamo veramente come farlo. Uscendo da teatro, non ci sono risposte, solo le domande di due fratelli che si ritrovano dopo qualche tempo e che parlano dell’esistenza come quando, tanto tempo prima, la sorella più piccola chiedeva al fratello più grande il senso delle cose e lui aveva più certezze e poteva risponderle.

Questo testo nasce da una serata a teatro con mia sorella Chiara a vedere due testi tratti da Jon Fosse e dalle conversazioni conseguenti. Molte delle osservazioni contenute in queste righe nascono dagli spunti di Chiara, che ringrazio, dopo lo spettacolo. L’immagine del bambino che dice che “tutti i nomi belli sono tristi” è tratta da un passo di “Sogno d’Autunno” di Jon Fosse.

Antigone alla frontiera

A Dimitris Christoulas, suicida in piazza Syntagma il 4 aprile 2012
A Beauty, respinta alla frontiera

Potrà forse discutere con chi lo ha plasmato
un vaso fra altri vasi di argilla?
Dirà forse la creta al vasaio: “Che fai?”
(Isaia 45,9)

Quando tornò marzo
le donne morirono sulle strade di Francia
e Antigone lasciò Tebe – i fratelli morti
nel desiderio inutile di un’altra guerra
imputridirono nel fango dei loro sogni di gloria
e il padre Edipo nei locali del centro
cantò di vecchi eroi, della pia Giocasta
che prese il mare in un giorno d’estate
per scordare le urla dei fucilati
per annegare il ricordo
dei pensionati suicidi in piazza Syntagma
dei cani senza padrone nelle strade di Atene
– a vederlo, cieco e mezzo ubriaco
palpare il seno della cassiera dopo l’ennesima storia
non avresti pensato ai suoi giorni di festa
quando in bianco e nero la sua alta uniforme
annunciava alla patria sconfitte e vittorie
decorava le madri dei troppi eroi.
“Allora, nelle notti insonni di un altro inverno
incontrai il Diavolo alle porte di Grecia
ed ebbi il potere sui troppi annegati
evocai i flutti sulle città fumose
di stufe a carbone nelle sere deserte
in cui solo il silenzio restava a vegliare
i vascelli distrutti dalla morte improvvisa
ma quando ‘l mar fu sovra noi richiuso
e il ministro tedesco mi strinse la mano
non sostenni la vista delle acque salate
e spensi i miei occhi in un Aprile crudele.”

Canta, Antigone, in questa sera di vento
canta gli annegati che tuo padre sommerse
e Ismene morta in terra straniera
su cui disperdi infine il tuo sguardo.

“Attendevo il cadavere di Polinice
per compiere il mio ruolo come sempre
morire nell’odore di erba bagnata
di un’altra primavera
lasciandoti alla tua giovinezza nei pomeriggi di marzo.
Attendevo il cadavere di Polinice
non certo il tuo, Ismene
respinta alla frontiera con il tuo vestito rosso
la tua pelle ambrata
i tuoi passi troppo forti nella notte di Tebe
quando rientravi tardi dopo aver congedato un altro volto di uomo
e il padre Edipo
affacciato alle finestre del primo sonno
ti prometteva vendetta nel suo pigiama a quadri.

Dicevi, Ismene, che preziosi sono i giorni
che manda il Dio sulla Terra
e partisti per la Francia quando la neve si sciolse
ora un soldato ti copre con un mantello troppo corto
troppo corto per nascondere
il tuo vestito le tue labbra la tua pelle
i tuoi passi
i tuoi sogni

Cullerò il tuo bambino con storie di fantasmi
e lo condurrò via verso il mare del sud
crescendo non saprà cosa hanno fatto a sua madre
non morirà sparato nelle piazze di Firenze
Tornerà la primavera nei suoi occhi azzurri
e a Tebe, dove Dio e non gli uomini giudica la vita
forse sarà felice, dimentico infine
del passo incostante delle ombre sul muro
del silenzio complice dei vincitori.”

Non raccontarmi più storie, ho freddo e ho paura
le dico in questa notte di rotte smarrite
– le prime sere di primavera vegliano Firenze
e le macchine solitarie in viale dei Mille
si spengono nell’incubo di un Kerouac allucinato
– conta solo andare, diceva, ma ovunque
il vento narrava di case grigie
in cui uomini esausti appassivano piano
oltre i vetri ghiacciati dei tram del mattino.

Al banco dei resi il profeta Isaia
interrogava Dio sull’inganno della vita
“In Santa Croce a sedici anni
ubriachi di un sogno perduto
camminammo insieme nella fragilità della notte
e mi promettesti
la salvezza di Sion in un giorno di sole
Babilonia caduta con i suoi falsi profeti
ebbene, dimmi ora
che cosa è stato delle nostre illusioni?”

Il vasaio tacque nella sua veste polverosa
e ricordò un pomeriggio sul mare d’autunno
la marea rifletteva il grigiore del cielo
e lui raccontava le sue terre promesse
crocefisse a Pasqua dai guardiani del tempio.
“Ci hanno tradito” disse assopendosi
nel suo sacco a pelo alla stazione dei treni
gli uomini passando gli sputarono addosso
e lui pensò al mondo in quell’estate lontana
in cui tutto era apparso ancora incorrotto
e tutto aveva senso e nello sguardo delle donne
si imparava l’amore, la vita, il destino.

Al mattino
trovarono la sua utopia fragile
morta nelle viscere di un’altra notte
e infine compresero
la vanità dei sogni.