L’inverno a Karlsplatz – Appunti viennesi

Vienna, 3 gennaio 2020

Il caffè Jugendstil di Otto Wagner in Karlsplatz

Karlsplatz unisce le epoche. Da un lato, la chiesa di San Carlo, costruita nel Settecento in onore di San Carlo Borromeo dopo un’epidemia di peste. Dall’altro, la Secessione proclama dalla sua facciata A ogni tempo la sua arte/a ogni arte la sua libertà e parla delle inquietudini della Vienna di fine Ottocento, in cui gli artisti iniziavano a far emergere nelle loro opere le pulsioni nascoste della città imperiale, il sesso, la morte, il desiderio.

Entrando a San Carlo, si percepisce un senso di pace. L’interno della chiesa, a dispetto dell’imponenza della facciata, è accogliente, intimo e anche la calca dei turisti, presente quasi ovunque qui a Vienna, sembra per un attimo fermarsi e concentrarsi solo sull’ascensore che porta in cima alla cupola. La ricchezza delle decorazioni dorate mantiene una certa compostezza e non diviene mai eccessiva e le statue e i dipinti non hanno la dolorosa teatralità del barocco spagnolo, con le sue Madonne sofferenti e i suoi Cristi sanguinanti e deturpati. L’unica concessione all’idea shakespeariana che all the world’s a stage, così diffusa nel Seicento e nel primo Settecento, sono due strutture simili ai palchetti di un teatro accanto all’altare. Mi siedo a metà della chiesa. Tutto è proteso verso l’alto, verso la cupola, verso un cielo che sembra davvero in questa mattina di gennaio potersi ricordare dei suoi servi disobbedienti/alle leggi del branco. Hölderlin e le sue divinità fuggite dal mondo e indifferenti al destino umano sembrano vivere lontano da qui.

La transizione verso la fine dell’Ottocento è data dalla stazione della metropolitana e dal caffé Jugendstil di Otto Wagner, a metà piazza. Abbandonati nella neve di questo inverno viennese e chiusi per sempre o fino all’estate – il cartello sulla porta non lo specifica – sembrano attendere il ritorno di una sera fumosa di inizio secolo, con le donne e gli uomini silenziosi nei loro vestiti buoni a inseguire i loro sogni di rivoluzione o l’ombra di Lenin di ritorno dal Café Central, quando il futuro sembrava aprirsi oltre le luci del Canale del Danubio, al centro dell’Innere Stadt. Forse anche Trozkij è passato da qui, durante il suo soggiorno viennese e forse anche Beethoven, Mozart, molti anni prima, quando la stazione non esisteva e vi era solo la Karlskirche in fondo alla piazza. Vienna sembra attendere i suoi morti, nostalgica custode di un passato svanito.

Dentro la Secessione, rimango a lungo a scrutare il Fregio di Beethoven di Klimt, le sue donne sensuali e deformate, l’enorme scimmia che incombe su tutto come gli echi di guerra nell’Ode al vento occidentale di Shelley o come le inquietudini di Fridolin e Albertine in Doppio sogno. Era la Vienna che fuggiva dai rigidi genitori asburgici, in cui Schnitzler fece il medico fino al giorno della morte del padre pur desiderando dedicarsi al teatro, in cui ognuno indossava la sua eliotiana faccia per incontrare le facce che incontri sotto cui si celavano desideri di fuga e di libertà. Era la Vienna in cui Freud parlava della necessaria conflittualità con il soffocante dover essere dei padri, in cui ognuno ricopriva il ruolo assegnato pur immaginando di essere altrove, attore necessario di un inutile spettacolo sospeso sull’abisso. La guerra avrebbe distrutto ogni finzione, portato alla luce l’inconsistenza della retorica dei padri e costretto i figli ad annientare i propri sogni in un conflitto inutile. Forse l’inquietudine dei quadri di Klimt parla di questo. Della consapevolezza di essere guidati dai propri padri verso il baratro senza poter fare niente per impedirlo e del tentativo dunque di affermare in qualche modo la propria autonomia, la propria libertà, rivendicare perlomeno nell’arte quel desiderio di emancipazione che il rigido conservatorismo asburgico non consentiva.

Ma, in fondo, forse l’inquietudine raccontata da Klimt parla di ogni epoca, parla di chi, nel disorientamento di tempi inquieti in cui il silenzio di Dio diviene quasi insostenibile, cerca di sognare, di leggere poesie, di viaggiare per scoprire un angolo di mondo in cui, tempo fa, Beethoven scriveva la Settima Sinfonia omaggiando il dionisiaco nella danza e Schubert immergeva i suoi quartetti nella malinconia dell’inverno viennese. Di chi cerca, in definitiva, di rivendicare la propria singolarità. Quando esco, nevica ancora. Mentre mi allontano nella piazza, mi trovo a canticchiare l’inizio dell’Incompiuta. Mi sorprendo a pensare che parli proprio di questa neve.