Soliloquio per una passante

Perché poi, sai, essenzialmente, penso che sia colpa della primavera, di questa primavera che mi fa pensare alle strade interrotte, a quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Un po’ come un tempo, a scuola, quando studiavo la guerra di Spagna e immaginavo la vittoria dei repubblicani o pensavo a come sarebbe stata la Comune di Parigi senza la repressione. Dunque, questi giorni che accompagnano verso la fine di marzo riportano uno sguardo che è il tuo, ma sospeso nell’indefinitezza, come se non sapessi nulla di quello che abbiamo vissuto, di quello che è stato, della mia vigliaccheria, delle tue indecisioni, dei passi che progressivamente si sono allontanati e ci hanno condotto in universi che ormai non si toccano più. Ti capita di pensare a Democrito? Io a volte penso alle vicende degli uomini come agli atomi di Democrito, le nostre vite cadono verso il basso, in un vuoto senza fine e ogni tanto si scontrano tra loro; a volte, addirittura, rimangono fuse per qualche giorno, per qualche anno, per tutto il tempo a disposizione, ma spesso sono solo gli occhi di una passante, oltre la pioggia di un giorno di novembre, a restituire il rumore dell’urto breve tra le esistenze prima che ognuno riprenda a cadere nella sua solitudine. A volte, quando ti penso, mi viene anche da pensare che non rimpianga specificamente te, quello che è stato, quel tuo modo di sorridere davanti a una statua del museo archeologico, bensì un tempo in cui una strada era aperta, in cui vi erano più possibilità, in cui avrei potuto essere altro, in cui la morte – estremo esaurimento di ogni evolutività e trionfo dell’atto sulla potenza aristotelica – era più lontana. In fondo non so se la nostalgia delle occasioni non colte non parli in realtà del mio, del nostro desiderio di rimanere in attesa sulla porta, immersi in sogni di vicinanza, di unione, di perfezione, prima che il vento sul mare, nella navigazione, porti via ogni illusione e ci dica che no, non era possibile, come avete fatto a crederci?

È sabato, alle porte della Pasqua. Attendo la resurrezione in compagnia del tuo fantasma, di altri fantasmi, degli altri atomi urtati e poi scomparsi, diretti verso universi paralleli che non incontrerò mai più. Uscendo di casa canticchio quella canzone di Brassens adattata da De André e mentre Firenze si riempie della folla dei giorni di festa, ti penso come “quella conosciuta appena/Non c’era tempo e valeva la pena/Di perderci un secolo in più”.

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