Qualche volta eri felice

“Ti ricordi via Macrobio?/Qualche volta eri felice”. Nel sottofondo della sera pasquale Piero Ciampi canta gli addii non più evitabili, quelli in cui ci si illude di potersi aggrappare ai pochi ricordi che salvano, ignorando la marea che conduce a largo. Tra le dita ho una rosa dei venti, un giusto simbolo di questo anno di navigazione, diviso tra Firenze e la campagna, e tuttora non so se mi appartengano le strade di paese in cui spesso mi perdo a sera o le solitudini del centro, salendo verso Forte Belvedere, che hanno colorato questo come altri inverni. Penso di avere bisogno della nostalgia dell’altrove, di quel senso di non appartenenza che non si traduce mai nell’essere di un posto, anche lontano. Il mio posto ha il volto di alcune persone care e si concretizza quando sono accanto a loro, svanendo poi quando i sentieri dell’erranza mi conducono a passeggiate inquiete in una città che solo a sprazzi ho sentito mia o quando a sera si fa spazio la malinconia e la lascio entrare come una vecchia amica.

Ho iniziato troppi libri e ne finisco troppo pochi. Forse dipende dal fatto che a volte leggo per dovere e mi trascino avanti per pagine e pagine senza riuscire ad ammettere di non essere interessato. Forse dipende dal tempo, dal pensare i giorni come nei primi mesi della pandemia o come nelle estati quando la scuola era finita e i libri scorrevano di cinquanta o cento pagine nei pigri pomeriggi in riva al mare o su una poltrona; ora di tempo ce n’è meno e forse anche comprare più volumi di quanti riuscirò mai ad aprirne è un’illusione di adolescenza, un altro tentativo di essere altrove.

“Qualche volta eri felice”, canta Piero Ciampi – penso al suo tumore all’esofago, alla morte su un letto d’ospedale dimenticato da tutti, simile in parte al suicidio di Tenco nella notte sanremese, alla sua disperazione da poeta inascoltato. È quel “qualche volta” a farmi quasi piangere, quella possibilità della felicità che non basta ad annullare il fallimento di un rapporto, che lo rende anche più doloroso con la consapevolezza che sarebbe potuta andare altrimenti perché, appunto, qualche volta davvero era stato tutto diverso. Mi vengono in mente i miei “qualche volta”, gli sprazzi di felicità in rapporti ed esperienze nel complesso negativi e portano con sé l’ombra scura della colpa, dei “forse avrei dovuto fare diversamente”, “forse è dipeso da me”.

La canzone scivola via nella notte e il tempo, come scrive Eliot, per le “cento indecisioni,/E per cento visioni e revisioni” si perde nella concretezza delle scelte fatte, nella serenità del luogo buono in cui mi trovo, nella musica di Joe Hisaishi che inizia a suonare in sottofondo. Mentre prendo in mano l’ennesimo libro da finire, mi viene da pensare che non ho rimpianti, che le occasioni perdute non sono altro che fantasticherie, il piacere di raccontarsi in modo diverso e di immaginarsi altro. Il piacere infantile di essere per un momento altro da ciò che si è, esplorando per un attimo mondi diversi per poi tornare nella confortevole stanza delle scelte che mi hanno reso felice.

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