Termoli, 12 agosto 2021
Termoli a sera rivela un’attività inaspettata. Per molto tempo, era stata un luogo avvolto in una lontananza quasi irreale, era il porto da cui si partiva per le isole Tremiti, progetto di viaggio accarezzato con mio padre prima di ogni estate per la loro vicinanza all’Abruzzo in cui passavamo le vacanze e poi accantonato ogni anno per ragioni ogni volta diverse. Riuscimmo infine, dopo vari tentativi, a dare corpo infine a quel piano e Termoli divenne finalmente una meta definita, persa in un Molise in cui i cartelli autostradali segnalavano i paesi più piccoli e non le città principali e inseguita in un mattino di agosto in cui ancora il navigatore satellitare non era un’opzione percorribile. Quell’anno, Termoli fu solo un porto, solo un passaggio. Ricordo l’aliscafo, la partenza, un bagno in mare sotto uno scoglio popolato dai ricci alle Tremiti, ma nulla mi torna in mente del luogo da cui partimmo e a cui tornammo, smarrito in una memoria che fissa solo gli approdi e dimentica il luogo da cui si abbandona la terraferma, rendendolo un frammento insignificante nella transizione verso la meta.
Dunque, quello di oggi è il mio primo incontro con Termoli, con il suo centro storico fortificato che si protende verso l’Adriatico al crepuscolo come se desiderasse un viaggio impossibile, come se si preparasse a distaccarsi dalle spiagge che si estendono ai suoi piedi per perdersi nel mare dopo esserne stato per lungo tempo confine. Le mura che guardano le acque, le case di vari colori come le abitazioni dei pescatori liguri suggeriscono mattine stanche di marinai in piedi di fronte ad un’altra partenza, oppure fermi semplicemente lì, davanti al mare, a fondersi con il silenzio. Eppure, quello che mi circonda non coincide particolarmente con le immagini di contemplazione suggerite dal luogo e ricorda piuttosto l’animazione che ritrovo nelle sere Oltrarno, a Firenze, fatta di ragazzi seduti ai tavoli in piazza, di gruppi di famiglie che inseguono bambini che corrono dietro ai cani e di un’atmosfera di festa che si percepisce fin dal corso pieno di luminarie, invaso da una fiumana di persone che lo attraversa entrando e uscendo da ristoranti e negozi. Mi sembra di ripercorrere frammenti delle mie estati abruzzesi, quando a Pineto in agosto a sera le vie venivano chiuse al traffico e si riempivano di villeggianti che le percorrevano in su e in giù e di bambini in bicicletta che poi si dirigevano invariabilmente verso la pineta ed è forse per questo mi sento a mio agio nello schivare le persone per procedere lungo la strada, come se fosse parte di un ruolo che conosco e che ho ricoperto altre volte.
Solo nella cattedrale romanica qualcosa di quei silenzi di fronte all’Adriatico evocati dal castello svevo riemerge. Un trombonista e un organista stanno provando per un concerto, le porte sono aperte e mi soffermo un attimo, oltre il brusio della folla che in piazza mangia e parla. La chiesa, nel suo rigore medievale, è imponente ma al contempo sembra dare uno spazio alla contemplazione, alla riflessione, ad un tempo meno frenetico in cui si può rimanere a osservare due musicisti provare senza avvertire la necessità di altro. Rimango lì per qualche minuto, poi, prima di quanto desiderassi, la frenesia della piazza mi avvolge di nuovo.