Sogno d’autunno

“Le ho detto che era un bel nome
E lo sai cosa mi ha detto?
Mi ha detto che tutti i nomi belli sono tristi”

J.Fosse, Sogno d’autunno

Settembre e le prime avvisaglie dell’autunno riportano a Jon Fosse, all’essenzialità di poche parole che punteggiano lo scorrere del tempo nello spazio onirico del cimitero di Sogno d’autunno, tratteggiando le vite come i monologhi di Virginia Woolf nelle Onde, in cui il racconto di un viaggio in treno sintetizzava una crescita, o come le stagioni nel Paese delle nevi di Kawabata. Sogno d’autunno mi è sempre sembrato un testo sulla precarietà della vita, dei rapporti, degli affetti, con la sua idea che gli anni passino troppo velocemente per poter cristallizzare la felicità di un momento o di una vicinanza, rileggendolo oggi mi rendo conto che è anche (e forse soprattutto) un testo sull’amore, su quell’amore che forse, come scrive Fosse, salva i morti. E, infatti, quello che rimane alla fine dell’opera, oltre i decessi di uno dei protagonisti, dei genitori e dei figli, oltre i divorzi, è l’amore tra i due personaggi principali, di cui seguiamo lo svolgersi dal primo incontro su una panchina del cimitero fino all’ultimo saluto sempre nello stesso luogo.

Leggere Fosse in questi giorni di inizio settembre, i suoi personaggi in bilico tra la vicinanza e il tempo che allontana e fa perdere, mi restituisce ogni volta qualcosa della mia malinconia d’autunno, quando assisto l’esaurimento delle infinite potenzialità dell’estate e osservo quello che rimane dopo lo spegnersi della bella stagione. Oggi, riprendendolo in mano, vi ritrovo anche un possibile rimedio alla percezione che qualcosa si perda irrimediabilmente alle porte di settembre e che la strada, che fino a ieri sembrava poter mutare direzione in ogni momento, si fissi in una necessità immutabile. Il rimedio, forse, è negli affetti, nelle emozioni, nei ricordi, nella percezione che comunque il viaggio dentro altre identità, l’incontro con altri volti, ci abbia cambiato in un modo che impedisce di tornare esattamente al punto di partenza. E, dunque, il luogo usato appare in realtà diverso, perché colui che lo visita non è più lo stesso, come il cimitero che fa da sfondo all’intero dramma di Fosse in realtà assume valenze sempre diverse perché i personaggi che vi si incontrano stanno attraversando fasi differenti dell’esistenza e hanno fatto incontri diversi, amandosi, separandosi, facendo figli e vedendoli morire.

La stabilità dei luoghi sembra contrapporsi all’instabilità dell’identità, che, come scrivono Marraffa e Meini, si deve inventare ogni giorno in un mondo in cui i ruoli non sono più definiti in modo rigido dalla società. Dunque, sono qui, dove settembre inizia con la sua malinconia d’autunno. Di nuovo è tempo di reinventarsi, di ricostruire, di riconoscersi. Userò i volti che sono stato quest’estate, forse, o forse ne troverò di nuovi da indossare. Sul tavolo, rimane Fosse, che mi accompagna da anni. Anche i suoi drammi, come il cimitero di Sogno d’autunno, hanno un significato diverso ogni volta che la vita mi conduce a rileggerli. In questi giorni di settembre, stranamente, sembrano parlare di speranza.

Avevo buttato giù alcune di queste righe dopo aver letto di nuovo “Sogno d’autunno” di Jon Fosse a settembre. L’assegnazione del premio Nobel al drammaturgo norvegese mi ha spinto a riprenderle e a completare il pensiero, con la felicità di sapere che l’autore di parole che spesso mi hanno accompagnato e tuttora mi accompagnano lungo la strada abbia ottenuto un riconoscimento così importante.

Tutti i nomi belli sono tristi

Uscendo da teatro, discutiamo di come ci raccontiamo, di come rappresentiamo le nostre vite giorno dopo giorno. Siamo stati a vedere un monologo basato su tre drammi di Jon Fosse e siamo stati pervasi dalle storie mancate di quei testi, dalle esistenze che si sarebbero potute vivere e che invece non sono state perché i personaggi hanno aderito a una qualche forma di dover essere rinunciando a se stessi e ai propri desideri. Siamo stati pervasi da quel senso di infinita e inutile continuità dell’esistenza espresso da una delle protagoniste – la città, dice, è piena di vivi che tra cinquant’anni saranno morti e cinquant’anni fa era piena di vivi che ora sono morti. La vita si mantiene senza preoccuparsi se, in questa eterna sostituzione dei volti delusi di oggi con altri volti pronti alla delusione che oggi sono ancora bambini e dicono che “tutti i nomi belli sono tristi”, la donna seduta sulla panchina abbia realizzato il suo desiderio di fuggire con l’uomo incontrato prima del funerale oppure sia rimasta lì a fantasticare, a coltivare il suo non-essere, il suo essere altrove rispetto al senso di sé che immaginava.

Uscendo da teatro, parliamo delle storie che raccontiamo a noi stessi per darci senso e di come talora quelle storie non ci piacciano eppure rimaniamo al loro interno, forse per noia, forse perché è troppo difficile attraversare il buio per iniziare un nuovo racconto. E così a volte ci facciamo trascinare dalle onde, fermati dagli infiniti non si deve e non si può di cui parla anche l’Antigone di Anouilh in cui mi rivedevo così tanto negli anni del liceo, e alla fine nessuno ci riconosce più, come il marinaio di Fosse che non viene riconosciuto dai genitori.

O forse talora proviamo a cambiare, a saltare nell’oscurità, a dirci diversi e abbiamo paura di finire come la donna del dramma di Fosse che ignora gli avvertimenti della madre e finisce annegata dall’uomo che amava.

In tutti i casi, rimaniamo con le nostre storie di noi stessi, con i particolari che raccogliamo dalla realtà per giustificarci e per dare validità al senso del nostro esistere che ci siamo creati. Forse sono storie intimamente insoddisfacenti, forse non abbiamo la forza di cambiarle, forse non sappiamo veramente come farlo. Uscendo da teatro, non ci sono risposte, solo le domande di due fratelli che si ritrovano dopo qualche tempo e che parlano dell’esistenza come quando, tanto tempo prima, la sorella più piccola chiedeva al fratello più grande il senso delle cose e lui aveva più certezze e poteva risponderle.

Questo testo nasce da una serata a teatro con mia sorella Chiara a vedere due testi tratti da Jon Fosse e dalle conversazioni conseguenti. Molte delle osservazioni contenute in queste righe nascono dagli spunti di Chiara, che ringrazio, dopo lo spettacolo. L’immagine del bambino che dice che “tutti i nomi belli sono tristi” è tratta da un passo di “Sogno d’Autunno” di Jon Fosse.