Antigone alla frontiera

A Dimitris Christoulas, suicida in piazza Syntagma il 4 aprile 2012
A Beauty, respinta alla frontiera

Potrà forse discutere con chi lo ha plasmato
un vaso fra altri vasi di argilla?
Dirà forse la creta al vasaio: “Che fai?”
(Isaia 45,9)

Quando tornò marzo
le donne morirono sulle strade di Francia
e Antigone lasciò Tebe – i fratelli morti
nel desiderio inutile di un’altra guerra
imputridirono nel fango dei loro sogni di gloria
e il padre Edipo nei locali del centro
cantò di vecchi eroi, della pia Giocasta
che prese il mare in un giorno d’estate
per scordare le urla dei fucilati
per annegare il ricordo
dei pensionati suicidi in piazza Syntagma
dei cani senza padrone nelle strade di Atene
– a vederlo, cieco e mezzo ubriaco
palpare il seno della cassiera dopo l’ennesima storia
non avresti pensato ai suoi giorni di festa
quando in bianco e nero la sua alta uniforme
annunciava alla patria sconfitte e vittorie
decorava le madri dei troppi eroi.
“Allora, nelle notti insonni di un altro inverno
incontrai il Diavolo alle porte di Grecia
ed ebbi il potere sui troppi annegati
evocai i flutti sulle città fumose
di stufe a carbone nelle sere deserte
in cui solo il silenzio restava a vegliare
i vascelli distrutti dalla morte improvvisa
ma quando ‘l mar fu sovra noi richiuso
e il ministro tedesco mi strinse la mano
non sostenni la vista delle acque salate
e spensi i miei occhi in un Aprile crudele.”

Canta, Antigone, in questa sera di vento
canta gli annegati che tuo padre sommerse
e Ismene morta in terra straniera
su cui disperdi infine il tuo sguardo.

“Attendevo il cadavere di Polinice
per compiere il mio ruolo come sempre
morire nell’odore di erba bagnata
di un’altra primavera
lasciandoti alla tua giovinezza nei pomeriggi di marzo.
Attendevo il cadavere di Polinice
non certo il tuo, Ismene
respinta alla frontiera con il tuo vestito rosso
la tua pelle ambrata
i tuoi passi troppo forti nella notte di Tebe
quando rientravi tardi dopo aver congedato un altro volto di uomo
e il padre Edipo
affacciato alle finestre del primo sonno
ti prometteva vendetta nel suo pigiama a quadri.

Dicevi, Ismene, che preziosi sono i giorni
che manda il Dio sulla Terra
e partisti per la Francia quando la neve si sciolse
ora un soldato ti copre con un mantello troppo corto
troppo corto per nascondere
il tuo vestito le tue labbra la tua pelle
i tuoi passi
i tuoi sogni

Cullerò il tuo bambino con storie di fantasmi
e lo condurrò via verso il mare del sud
crescendo non saprà cosa hanno fatto a sua madre
non morirà sparato nelle piazze di Firenze
Tornerà la primavera nei suoi occhi azzurri
e a Tebe, dove Dio e non gli uomini giudica la vita
forse sarà felice, dimentico infine
del passo incostante delle ombre sul muro
del silenzio complice dei vincitori.”

Non raccontarmi più storie, ho freddo e ho paura
le dico in questa notte di rotte smarrite
– le prime sere di primavera vegliano Firenze
e le macchine solitarie in viale dei Mille
si spengono nell’incubo di un Kerouac allucinato
– conta solo andare, diceva, ma ovunque
il vento narrava di case grigie
in cui uomini esausti appassivano piano
oltre i vetri ghiacciati dei tram del mattino.

Al banco dei resi il profeta Isaia
interrogava Dio sull’inganno della vita
“In Santa Croce a sedici anni
ubriachi di un sogno perduto
camminammo insieme nella fragilità della notte
e mi promettesti
la salvezza di Sion in un giorno di sole
Babilonia caduta con i suoi falsi profeti
ebbene, dimmi ora
che cosa è stato delle nostre illusioni?”

Il vasaio tacque nella sua veste polverosa
e ricordò un pomeriggio sul mare d’autunno
la marea rifletteva il grigiore del cielo
e lui raccontava le sue terre promesse
crocefisse a Pasqua dai guardiani del tempio.
“Ci hanno tradito” disse assopendosi
nel suo sacco a pelo alla stazione dei treni
gli uomini passando gli sputarono addosso
e lui pensò al mondo in quell’estate lontana
in cui tutto era apparso ancora incorrotto
e tutto aveva senso e nello sguardo delle donne
si imparava l’amore, la vita, il destino.

Al mattino
trovarono la sua utopia fragile
morta nelle viscere di un’altra notte
e infine compresero
la vanità dei sogni.